Avete notato come, di
recente, vada tanto di moda la bottiglia o il barattolo con il nome stampato
sull’etichetta? Mi riferisco alla confezione di quella bevanda nerastra che fa
digerire e della nota crema di nocciole di cui ho fatto tranquillamente il nome
nel post precedente!
In particolare, mi ha
colpito la pubblicità del secondo prodotto: è vero, nel corso della vita
veniamo chiamati in tantissimi modi, e ognuno sembra connotarci in qualcosa di
diverso da quello che eravamo appena poco prima.
Io, per esempio, sono nata Paola; la famiglia mi ha chiamata Paoletta o Paolotta (a seconda del peso raggiunto), e a volte anche Paqla (errore di mia mamma, che non sa
scrivere con il cell…); per gli amici sono stata Pola e Piz, ma spesso
anche Stronza e Sbronza; con “lui” sono Amore…
e nei momenti critici sono AMORE, ma
cazzo!!!
A scuola e nei lavori più
formali mi hanno apostrofato come Peretti,
Peretto e Barbara (!).
I bambini e i ragazzi di
cui sono stata insegnante mi hanno riconosciuta come maestra, prof, Paolona, Paolina, Laura… mamma… ehi… ed altri
epiteti che non riporto perché ho rispetto per me stessa.
Quanti nomi possiamo avere?
E quanti ruoli ricopriamo mentre esistiamo? Non saranno forse troppi? Non si
rischia di perdersi un po’ in mezzo a questa selva di doveri e di richiami?
Una volta un prete mi disse
che non dovevo dare soprannomi ai miei amici o alla mia persona, perché il nome
di battesimo è bello, è quello che i genitori hanno scelto per noi e non va
alterato. Vorrei sapere se anche Crocifissa
e Pierubaldo la pensano così.
Certo, nemmeno a me fa
piacere quando mi punzecchiano: Paolotta,
Paolona… Ma, se quel nomignolo è ciò che mi si addice in un determinato
momento della mia vita, che ci posso fare? Me lo tengo e vado avanti.
Sulla carta d’identità
scrivono chi siamo in base a un’osservazione oggettiva dei dati –in teoria: nome Paola, stato nubile, professione
studente, altezza 160 cm, segni particolari nessuno. Bè, posso dirvi con
sicurezza che solo una di queste cose è vera, e si tratta di un numero.
Ma come?, mi sentirò
chiedere. Non sei Paola, non sei nubile?
Sono Paola al battesimo:
peccato che sia diventata atea. Sono nubile ma convivo: per me è come un
matrimonio. Professione: per lo Stato italiano sono disoccupata, perché non
guadagno abbastanza per passare di categoria. Pour moi sono insegnante,
giornalista, hostess di fiera… e scrittrice ancora in ostaggio nel corpo di una
blogger!
Infine, non ho mai
sopportato l’ultima dicitura della carta d’identità: i segni particolari. Lo so
che la signora dell’anagrafe non ha il tempo di starti a guardare in faccia ed
esplorare i tuoi mondi nascosti, ma a me divertirebbe trovare almeno una piccola
cosa nel volto di ogni persona: uno sguardo, una cicatrice… Se lavorassi in
quell’ufficio, scriverei: “mento sfuggente, tipico del criminale”. “Occhi da
incantatore di serpenti”. “Lentiggini come se piovesse”. “Dentatura
invidiabile”. “Sopracciglia da sfoltire”. “Naso indimenticabile”.
Non sarebbe bello poter
avere davvero tutte quelle identità? Sentirle proprie, non ripudiarle,
tuffarvisi, come in effetti facciamo nella realtà fattuale della vita di tutti
i giorni? In fondo, i genitori, insieme al nome, ci hanno dato anche tutte le
altre possibilità di essere. Sono quasi certa che poi spetti a noi riconoscerci
in ognuna di esse, con malleabilità ed esuberanza. Non siamo creature
monolitiche: siamo personaggi che si evolvono e che devono trovare la forza di
inserirsi nella trama, al proprio posto, con un proprio nome. Alla fine, siamo
noi che scegliamo chi essere.
Paqla,
Piz, Peretto… non ha importanza. Una borsa di Buberry
resta una splendida borsa, anche se non ha lo stemma che la denota come tale. E’
una forma di libertà estrema, scegliersi il nome da sé, ma lo ha fatto anche
Pippi, e non per questo l’amiamo di meno… anzi. Pippi, Pippi, Pippi: che nome! Fa un po’ ridere… così canta la
canzone, no? Ma voi riderete per quello
che farò.
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