martedì 16 aprile 2013


Words' power

Sgrunf!


Si racconta che le sacerdotesse dell’antichità classica fossero donne dalla parlata ambigua, pronosticatrici di eventi ai quali forse nemmeno loro sapevano dare un senso ed un nome prima che avvenissero.
Lo dimostrerebbe il famoso episodio del soldato che, timoroso di lasciarci le penne in missione, andò dalla sua Sibilla di fiducia e ne ebbe un responso assai strano: Andrai tornerai non morirai in guerra, là dove la poca chiarezza è interna alla frase latina, che, a seconda della punteggiatura, si può leggere sia come una buona profezia sia come un presagio di morte certa (Andrai, tornerai non, morirai in guerra.)

Al giorno d’oggi, c’è chi dice che i ruoli si sono ribaltati e che siamo noi donne ad attendere ansiosamente una risposta da parte dell’uomo, e con quale fatica cerchiamo di interpretarne le parole “sibilline”! Una persona adulta, si lamentano le mie amiche, dovrebbe essere in grado di esprimere in modo limpido ciò che vuole o non vuole, ed anche di farlo senza troppi tentennamenti o arzigogoli linguistici.
Esempio: Qualcuno che conosco si è di recente deciso ad interrompere una relazione a distanza tutt’altro che salutare (o meglio, da salutare). La Persona che conosco si è infatti stancata dei monosillabi e delle perifrasi di un uomo abituato a lasciare che fosse la donna a decifrare i suoi messaggi, invece di fare lo sforzo di articolare dei discorsi coesi e coerenti.
Altro esempio: Yaia l’anno scorso ha frequentato un ragazzo che chiameremo Cotton Eye Joe. Quando dico che l’ha frequentato, non intendo quel tipo di rapporto tradizionale in cui si esce, ci si conosce e pian piano si diventa qualcosa. Loro si sono buttati a capofitto –e ben venga-, ma poi si sono ritrovati in una no fly zone nella quale l’unica cosa a non volare era l’esatta determinazione della loro liaison. Lei aveva paura di indurlo a chiarire (anche se ci ha provato), lui non aveva nessuna intenzione di sbilanciarsi, e quando lo ha fatto ha creato più confusione che altro.
Perché l’uomo, o almeno uno dei due partner all’interno della coppia, ha sempre tanta paura di parlare chiaro?
Se la mamma chiede al figlio quale condimento voglia nella pasta -il sugo o la pancetta-, il cucciolo saprà sempre cosa rispondere. La squadra favorita? Schierati come soldatini e pronti a difendere la formazione a costo della vita. Bionda o mora? Ognuno ha le sue preferenze, ma nel peggiore dei casi ti diranno:”Basta che sappia fare all’amore”, e ho usato una perifrasi garbata.
Dove finisce tutta questa sicurezza quando le domande sorgono in una relazione? Da dove deriva la convinzione che le parole comportino responsabilità e conseguenze inaccettabili?

Chi mi legge da un po’ sa quanto mi piacciano le parole. Sono il mio lavoro, il mio mondo. Le uso continuamente: non a caso, tra la laurea triennale e quella magistrale ho abbandonato il vecchio corso di lettere per studiare comunicazione. Amo indagare sul significato dei termini, spolpando ogni singola lettera come un chirurgo del fonema, certa che in qualche strana maniera nel suono si celi anche il senso, speranzosa quasi di ritrovare quel grugnito primordiale con cui i primi uomini e le prime donne hanno indicato una scintilla di fuoco, un fiore, un bambino,
Non so perché lo faccio. Ma a me le parole non fanno paura. E’ come se fossero…tutte mie. Forse dipende dal fatto che ne ho sentite tante dai miei genitori, di belle e di meno belle. Ma ora le possiedo. La parola Colpa…so come incassarla. Preoccupazione…è lo stato d’animo giusto prima di trovare un’occupazione. Nicola…il vincitore: alla fine ha vinto lui tra tutti.

Non nego che le parole facciano male. Per questo bisogna usarle “al millimetro”, con elevata attenzione lessicale ed avendo cura di cambiare tono da persona a persona. Quando iniziamo un discorso, dovremmo essere consapevoli dell’arma che impugniamo: ciò che diciamo è un pianoforte, ovvero uno strumento pesantissimo, delicatissimo, elegante fuori e complicato dentro, pieno di tasti e sfumature sonore, riflessi, pedali, tempi e libertà. Tutto questo è difficile da gestire, a meno di non esercitarsi molto spesso e con impegno. Nelle relazioni, poi, è ancora più difficile: ci si siede al piano in due, ognuno suona a modo suo, e non si segue uno spartito. Ogni brano porterà ad una meta indefinita, ad un felice ritorno o alla morte certa.
Non è necessario aver studiato latino, greco e solfeggio per imparare, sulla propria pelle, quanto sia arduo comunicare.

Le donne vengono considerate la parte della coppia più predisposta ad esprimersi. Certi studi hanno stabilito che una zona del nostro cervello (quella che ci aiuta a comunicare) è più sviluppata che nel cervello degli uomini.
Questo,a mio modesto parere, non dà ai partner il diritto di etichettarci come spacca palle che non smettono mai di parlare, né di arrogarsi il diritto di tacere. Il silenzio è una conquista che l’uomo è ancora ben lungi dal poter fare, dal momento che è completamente dipendente dalla donna da un punto di vista molto più materiale.
Forse gli uomini non parlano perché temono di assoggettarsi alle donne anche a livello mentale. Durante una sbronza, mio cognato Pitt mi ha confidato che secondo lui una cosa esiste solo nel momento in cui le si dà un nome. Al tempo ero d’accordo. Ora sono persuasa del fatto che non essere detti non corrisponde affatto a non essere, anzi, paradossalmente sono proprio le cose più importanti che non riesco nemmeno a scrivere!
Sarebbe necessario uno sforzo reciproco, dell’uomo e della donna, per arrivare a piccoli passi ad una comunicazione più autentica… magari partendo da un grugnito (al quale i maschi sono già abituati), magari dando ossigeno alla scintilla invece di soffocarla, magari smettendo di ignorare i fiori.
E chissà che non si arrivi al nome da dare al bambino.

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